NEL REGNO DEL CERVO

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Era da tempo che quella cresta aveva catturato la mia attenzione. Esteticamente perfetta, affilata sulle due valli, una lunghissima dorsale che dalla vetta del Monte Lieto scende fino a valle compiendo un balzo di oltre 1200 metri di quota.

Durante ogni escursione nella zona, i miei occhi non potevano far a meno di cadere lì, cercando di capire se e come fosse possibile scenderla.

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Spinto da un indomabile istinto di conoscenza inizio a documentarmi cercando di farmi un’idea più precisa.
Chiedo consiglio a qualche amico ma non riesco a raccogliere molte informazioni. Nessuno di loro l’aveva mai fatta.

Quindici giorni prima, ancora una volta, me la ero trovata di fronte a me. Da Passo Cattivo era bellissima, come l’avevo sempre trovata. Ora però la vedevo con occhi diversi. Per la prima volta non faceva più così paura. Un chiaro segnale che i tempi si erano fatti maturi.

CASTELSANTANGELO SUL NERA, 22/10/2016
(Parco Nazionale dei Monti Sibillini)

Il termometro segna due gradi sotto lo zero. Le cime più alte sono già imbiancate dalla prima neve della stagione. Il fondo valle è tutto gelato.
I camini sono già accesi e il paese sembra non essersi ancora svegliato.
Di buon passo cerco di lasciarmi alle spalle l’ombra della valle. Salgo rapidamente verso l’inversione termica, cinquecento metri più in alto, dove i primi raggi di sole renderanno la temperatura  più sopportabile.

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In quota la natura ha già compiuto il suo piccolo miracolo. L’ambiente si sta lentamente preparando all’inverno e i boschi si sono trasformati in un mosaico di colori di straordinaria bellezza

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La salita è lunga e costante fino a quota 1400. In corrispondenza di una piccola sella alle pendici del Cardosa, abbandono la forestale per proseguire in direzione sud seguendo una vecchia pista di transumanza.

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La pista prosegue duramente per molti chilometri. Le sagome del Monte Patino e del Monte delle Rose indicano la giusta direzione di marcia.

Affrontare la montagna in solitudine comporta sempre alcuni rischi. Ciò nonostante ti permette di osservare le cose sotto altri punti di vista amplificando la sensibilità e le emozioni.
Nel quotidiano la solitudine è un momento raro e prezioso. Lontano dalle convenzioni della vita di tutti i giorni, si ritorna se stessi, a vivere secondo i propri ritmi e il proprio istinto. La solitudine in montagna è la più grande espressione di libertà.

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A Passo Rapegna faccio un’ultima sosta. Cerco di recuperare un pò di quell’energia necessaria per affrontare l’ultimo tratto che sale fino alla vetta del Monte Lieto.

La traccia sale ripida per altri 300 metri di quota

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alcuni tratti  richiedono molta attenzione e non ammettono errori

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La vetta ormai è poco sopra di me. Allungando una mano  sembra quasi di poterla toccare. Mancano ancora  150 metri di quota. Una distanza che in condizioni normali viene coperta in pochi minuti ma che, a queste altitudini, sembra un’altra montagna da scalare.
Il pendio si fa sempre più ripido. Salgo con gesti automatici, concentrato a mettere un passo dopo l’altro.

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L’arrivo in vetta regala sempre grande soddisfazione. Da qui in avanti non c’è più niente da salire.
La vetta non è solo una ricompensa a tutti gli sforzi compiuti per arrivare fino a qui. La vetta è la realizzazione di un sogno, voluto e desiderato e che ora finalmente si sta realizzando.
Mi fermo qualche minuto ad ammirare  il profilo delle montagne,  le profonde vallate e gli immensi spazi che mi separano da ogni cosa. Tutto appare diverso quando viene osservato dall’alto. Da questa prospettiva tutto è speciale e prezioso.

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La vetta è solo un giro di boa, la metà del percorso dopo ogni salita.
E’ ormai  il momento di scendere e restituire alle ruote tutta la quota faticosamente guadagnata.
Scendere, come salire, ha le sue difficoltà.  La discesa può nascondere molte insidie e richiede molta concentrazione specie quando si è soli.

Dalla vetta mi spingo verso quello spigolo nord che avevo tanto desiderato e che rappresentava vero il motivo per cui mi ero spinto fin qui.

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La traccia scende in bilico tra le due valli. Non posso fare a meno di fermarmi, di tanto in tanto, per ammirare tutta la bellezza che si spalanca dopo ogni passaggio.

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A quota 1250 ciò che temevo. Il sentiero scompare nel bosco e sembra interrotto verso ogni direzione. Perdo i punti di riferimento, non ci sono segnali. Le foglie cadute dagli alberi cancellano ogni traccia nel ripido pendio. Dopo qualche tentativo riesco a scorgere una piccola traccia lasciata dal passaggio degli animali al pascolo. E’ quella giusta, che pian piano diventa sempre più netta fino a ritornare sentiero.

Il destino, fin qui molto generoso, è di nuovo ad aspettarmi. Poco fuori dal bosco, in prossimità di una piccola radura, ci sono loro, i signori del bosco, una coppia di cervi che non sembra impaurita dalla mio passaggio. Rimaniamo a distanza. Nessuno fa la prima mossa, così che ho tutto il tempo di immortalare questo magnifico momento.

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Proseguo verso valle inebriato da quel senso di euforia tipico di chi vive giorni intensi e senza tempo. Mi rimane il tempo di tirare ancora qualche veloce curvone quando inizio a intravvedere le prime case e, con esse, la fine di questa nuova grande avventura.

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Ignaro di ciò che sta per succedere, mi godo gli ultimi raggi di sole sorseggiando una bevanda calda nel bar della piazza.
La terra stava ribollendo e, da lì a pochi giorni, avrebbe scaricato tutta la sua forza distruttrice.

Il terremoto era di nuovo tornato. Questa volta colpendoci direttamente nel cuore.
Nei giorni successivi, mentre scorrono le immagini sui vari telegiornali, non sono riuscito a trovare posto che non fosse custode di qualche mio ricordo.  La chiesa di Casali, dove da bambino trascorrevo in tenda le vacanze estive;  il bar della piazza, dove sorseggiando quella calda bevanda mi godevo le emozioni di quell’ultima mia vetta; il benzinaio, dove appena quattro giorni prima facevo “l’ultimo” rifornimento; rivedo persino la fontana, dove qualche giorno prima avevo riempito quell’ultima borraccia prima di prendere la strada per la montagna.
Anche nei visi delle persone c’era qualcosa di familiare: alcuni perchè semplici conoscenti, altri perchè veri e propri amici. Amici che che in quel momento avrei voluto abbracciare uno ad uno ed augurare ogni bene in questo momento buio e di smarrimento.
Ancora oggi, sfogliando queste foto, provo un profondo senso di angoscia e incredulità. Non riesco a spiegarmi come una natura così bella possa anche essere così dura e violenta.
Ci vorrà molto tempo, nulla sarà più come prima. Ma aspetteremo, perchè in fondo è tra queste meravigliose montagne che è rimasto un pezzo del nostro cuore.

Itinerario: vedi qui

Foto e testi: Fabrizio Castelli

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3 Responses

  1. Alberto scrive:

    Racconto molto bello degno di uno scrittore. Scrivi molto di giro in solitudine,ma le foto chi le ha fatte? Questa è una domanda che mi faccio spesso,come quando vedi certi film, dove dietro al solitario c’è, una troupe televisiva. Comunque bellissimo racconto, posti ancora piu belli. Molto dispiaciuto per quello che è successo dopo. Comunque complimenti ciclista.

  2. Fabio P. scrive:

    Sempre speciale Fabrizio!

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